PREFAZIONE 
 
   
E’ con vero piacere che presento questo nuovo lavoro di Marco Bianchini. Si tratta di un’opera d’impegno di cui si sentiva il bisogno, anche se inconfessato, da parte di chi si occupa di edilizia dell’antichità. 
Uso intenzionalmente il termine edilizia in luogo del più aulico ed accademico architettura, perché in realtà il Bianchini si occupa di raccogliere e sistematizzare l’intero ventaglio del costruito senza proporre una classificazione gerarchica che, semmai, interesserebbe la storia dell’arte e non quella del costruire. 
L’organizzazione del lavoro ripropone i tre grandi comparti che rispecchiano altrettanti lunghi periodi di applicazione di tecniche differenti: la costruzione in legno e terra, quella in pietra ed infine quella in opera cementizia. Tali periodi sono divisi da due rivoluzioni tecnologiche; la prima la potremmo definire “meccanica” perché legata all’invenzione di macchine per il sollevamento di grandi pesi. Questo liberò le maestranze dalla fatica “eroica” di approntare e mettere in opera pietre di grandi dimensioni che acquisivano un particolare valore proprio per l’enormità della fatica occorrente alla loro messa in opera. La diffusione delle macchine rese “normale” la possibilità di sollevare pesi consentendo, così, il passaggio alle costruzioni in pietra. 
L’altra rivoluzione si realizzò con l’uso dell’opus caementicium che consentì la realizzazione di grandi ossature con un processo di addizione di piccole o piccolissime quantità di materiale legandolo in opera. 
Il Bianchini pone sempre l’attenzione sulla struttura alla base di un organismo ed in questo quadro l’accezione più comune del termine architettura, ed ancor più quella di monumento, resta in un certo senso limitata al fatto decorativo. Quello che interessa soprattutto è lo sviluppo e l’applicazione della tecnologia; in concreto “della concezione ossaturale,” diremmo con il Milani.  
In un tempo in cui è quasi scomparsa la coscienza del valore culturale di una disciplina che studi la storia e gli stili dell’architettura, il “lessico architettonico” del Bianchini diviene un mezzo preziosissimo per ravvivare la terminologia appropriata delle diverse membrature architettoniche. 
La presenza poi di un indice analitico di centinaia di voci è mezzo indispensabile sia per una ricerca analitica sia per una indagine più ampiamente tematica. E’ un congegno che da solo riesce a far funzionare l’intera opera, per usare le parole dell’autore, come un “dizionario enciclopedico illustrato dell’edilizia antica”. 
Proprio di questo, in realtà, si tratta, di un dizionario di grande flessibilità. 
In sostanza la filosofia che impronta il lavoro mi è pienamente congeniale, ma la ritengo, purtroppo, assai poco allineata con tempi come i nostri in cui protagonisti del mondo accademico, affascinati dalle ribalte di grande risonanza, anche televisive, propongono idee che, per il bene della cultura, sarebbe opportuno lasciassero in un cassetto ben chiuso. 
Quella di Marco Bianchini sembrerebbe, dunque, la fatica di un portatore di acqua, ma a parte il fatto che senza l’acqua non si vive, (e questo sarebbe già un punto a vantaggio), la grande quantità di dati raccolti, la stesura di una funzionale trama di raccordi, sottesa da una logica precisa e competente, diviene strumento di grande utilità per la comprensione del fatto costruttivo. 
Certo si tratta di un lavoro un po’ controcorrente.  
In esso si avverte, tuttavia, accanto alla conoscenza profonda della materia, anche il disagio di dover agire in una temperie culturale disposta, tranne rarissimi casi, a considerare ogni edificio antico più come supporto della decorazione che come indice del livello tecnologico e progettuale raggiunto. Del resto l’autore sembra spinto proprio dalla voglia di opporsi alla indifferenza per i problemi della tecnologia collegata alla stabilità ed alla resistenza dell’edificio. 
Il concetto per cui il vero motore del progredire tecnico e conseguentemente stilistico e spaziale dell‘arte del costruire, risiede nel fallimento strutturale, è normalmente sottovalutato dagli studi archeologici. Eppure è proprio questo fatto che, spingendo alla ricerca del rimedio, ha realizzato orizzonti tecnologici capaci di andare molto oltre la stessa soluzione del problema che li ha generati. 
E in questo lavoro si legge tutta la considerazione che l’autore ha per l’arte del costruire come elemento fondante per la storia dell’uomo, ma anche il disagio per il diffuso malinteso che recita: “si capiscono le strutture perché si ha una buona attitudine al disegno” (è ovvio che chi non capisce le strutture preferisce ammettere di non saper disegnare). A questo si aggiunge il fastidio per la convinzione diffusa che un corpus di capitelli, o di sagome di cornici o, peggio ancora, una distesa di campionature di cortine murarie riguardi l’architettura e non altro: per esempio sarebbe più corretto, nel caso dei capitelli, parlare di scultura, o, in quello delle cortine murarie di una esercitazione tendente al nulla. I fisici teorici parlando di scienza definiscono, credo correttamente, questo genere di ricerca puro “collezionismo di francobolli”.  
Oggi, infatti, si sta sempre più decomponendo il concetto di scienza e proprio per questo taluni archeologi hanno cominciato ad autodefinirsi scienziati. 
Ma come spesso accade nei periodi di grande collasso culturale, all’autoesaltazione corrisponde la decadenza del pensiero di base della disciplina ed il ricorso a tecnologie sempre più complesse, sofisticate e fideisticamente “precise” il cui uso viene, però, delegato ad altri. 
Così, rinunciando a gestire in prima persona quelli che sono semplici mezzi di indagine, ci si immette nel vortice della documentazione dissennata, fine a se stessa, in cui si aggirano, come protagonisti di un rituale integralista i GIS (talvolta anche brevettati!), le Stazioni Totali, le Nuvole di Punti, gli Scanner Laser, e infine la ormai irrinunciabile Georeferenziazione ecc. 
Tutte parole magiche, che individuano semplici supporti non sempre necessari, che ormai stanno sostituendo quella che assai banalmente dovrebbe definirsi conoscenza. 
Concludo questo concetto con le parole di Lucio Russo: ”come in epoca imperiale, i concetti teorici, avulsi dalle teorie in cui hanno il proprio significato e considerati oggetti reali la cui esistenza appare solo all’iniziato, vengono usati per la stupefazione del pubblico”. 
Si tratta di “oggetti introdotti in teorie che gli sono totalmente ignote (allo studente) e che non hanno alcuna relazione comprensibile con fenomeni a lui accessibili”. 
“Il metodo “scientifico” così trasmesso consiste nella accettazione passiva del mistero e delle contraddizioni e nella rinunzia a spiegazioni razionali della realtà. L’Italia è all’avanguardia del processo….Per esempio siamo stati i primi a usare il termine teorema come sinonimo di fandonia calunniosa dedotta con sofismi” (L. Russo, La rivoluzione dimenticata, Feltrinelli, 3 ed. Milano 2003, epilogo, pp. 459-60.) 
In questo libro, tuttavia, si respira un’aria diversa. Perché l’autore, pur essendo pienamente padrone della tecnologia aggiornata per averla a lungo applicata in prima persona, ha confezionato uno strumento che per funzionare deve avere un coprotagonista nel lettore. 
Questi è chiamato a far parte del progetto. E’ il suo interesse che dinamizza e da vita all’opera, un’opera flessibile a differenti esigenze che non consente il rassicurante riposo del responso delfico che emana dal computer. 
 
Cairoli Fulvio Giuliani 
 
 
 
 
 
Rassegna degli Strumenti Informatici per lo Studio dell'Antichi